mercoledì 27 aprile 2011

Conversione del pignoramento – Mancanza dell'avvertimento – Nullità – Esclusione – Conseguenze – Cass. 23 marzo 2011 n. 6662

L'omissione dell'avvertimento rivolto al debitore della possibilità di richiedere la conversione ai sensi dell'art. 492 c.p.c. non comporta la nullità dell'atto di pignoramento. 

E' quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 6662 del 23 marzo 2011

L'ingiunzione di cui al comma 1 dell'art. 492 c.p.c. costituisce elemento essenziale del pignoramento, tale, cioè, da essere indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell'atto facendo conseguire alla relativa omissione la sanzione della inesistenza (secondo l'orientamento più rigoroso e più risalente, di cui è espressione Cass. 21 giugno 1995, n. 7019) ovvero della nullità, assoluta (quindi rilevabile in tutto il corso del processo esecutivo, Cass. 10 marzo 1999, n. 2082) o relativa (quindi rilevabile con l'opposizione ex art. 617 c.p.c e nel termine ivi previsto: cfr. Cass. 23 gennaio 1998, n. 669, nonchè, da ultimo, Cass. 30 gennaio 2009, n. 2473). 

Non è la stessa cosa per i requisiti formali previsti dall'art. 492 c.p.c. commi 2 e 3. Tali elementi non sono, richiesti per la validità dell'atto ovvero per consentire a questo di raggiungere lo scopo tipico dell'imposizione del vincolo, ma dettati, il primo, nell'interesse del creditore al più celere svolgimento della procedura (ed, in parte, anche nell'interesse del debitore a partecipare consapevolmente al processo esecutivo); il secondo nell'interesse del debitore ad attivarsi prontamente per la conversione del pignoramento. 

La Suprema Corte ha, comunque, precisato che, pur non comportando la radicale nullità dell'atto di pignoramento, dal mancato avvertimento derivano delle altre conseguenze sul corso della procedura esecutiva. 

L'avvertimento in questione riproduce, infatti, nell'atto di pignoramento una norma già altrimenti operante nel sistema quale è quella dell'art. 495 c.p.c. Se dalla mancanza dell'avvertimento non si facesse derivare nessuna conseguenza si <finirebbe per dare una lettura sostanzialmente abrogativa di una formalità alla quale, invece, il legislatore della riforma ha annesso tanta importanza da farla assurgere ad elemento necessario dell'atto di pignoramento>. 

Alla norma generale originariamente dettata dall'art. 492 c.p.c., comma 1, le L. 14 maggio 2005, n. 80, modificata dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, e, quindi, L. 24 febbraio 2006, n. 52, hanno, infatti, aggiunto numerose altre disposizioni, tra cui l'invito rivolto al debitore ad effettuare presso la cancelleria del giudice dell'esecuzione la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio in uno dei comuni in cui ha sede il giudice competente per l'esecuzione e l'avvertimento che il debitore, ai sensi dell'art. 495 c.p.c., può chiedere la conversione del pignoramento secondo le forme ed i termini previsti da tale norma. 

Alla luce della volontà del legislatore, si deve, perciò, ritenere che, ogniqualvolta il debitore non sia stato reso espressamente edotto della facoltà riconosciutagli dall'ordinamento di presentare istanza di conversione, <non possa essere disposta la vendita o l'assegnazione a norma degli artt. 530, 552 e 569>. Se il Giudice dell'esecuzione dovesse ugualmente disporre la vendita i l'assegnazione la relativa ordinanza <dovrà considerarsi viziata, quindi opponibile ai sensi dell'art. 617 c.p.c., perchè emessa in violazione dell'interesse del debitore ad essere informato delle modalità e del termine per avanzare un'utile istanza di conversione>. 

Se, comunque, il debitore sia messo in grado di avanzare tempestivamente l'istanza di conversione prima che venga disposta la vendita o l'assegnazione (sia con altro atto fattogli notificare dal creditore, sia con un provvedimento del giudice dell'esecuzione comunicato al debitore o pronunciato in sua presenza in udienza) la procedura esecutiva può regolarmente proseguire. 

giovedì 14 aprile 2011

Preliminare di vendita – Comproprietà indivisa – Singole manifestazioni di volontà – Cass. 1 marzo 2011 n. 5207


Nel caso in cui venga stipulato un preliminare di vendita di un bene oggetto di comproprietà indivisa i promettenti venditori si pongono congiuntamente come un'unica parte contrattuale complessa.
Le singole manifestazioni di volontà provenienti da ciascuno di essi sono, infatti, prive di una specifica autonomia e destinate a fondersi in un'unica manifestazione negoziale. In difetto di elementi desunti dal tenore del contratto, idonei a far ritenere che con esso siano state assunte (anche contestualmente) dai comproprietari promettenti distinti autonome obbligazioni aventi ad oggetto il trasferimento delle rispettive quote di comproprietà  si  presumere che il bene sia stato considerato dalle parti come un "unicum" giuridico inscindibile.

E’ quanto stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione  con la sentenza 1 marzo 2011, n. 5207.

Secondo i Supremi Giudici qualora una di dette manifestazioni manchi o risulti viziata da invalidità originaria (ovvero venga caducata per una qualsiasi causa sopravvenuta) «si determina una situazione che impedisce non soltanto la prestazione del consenso negoziale della parte complessa alla stipulazione del contratto definitivo, ma anche la possibilità che quella prestazione possa essere sostituita dalla pronuncia giudiziale ex art. 2932 c.c., restando, pertanto, escluso che il promissario acquirente possa conseguire la sentenza ai sensi di detta norma nei confronti di quelli tra i comproprietari promettenti dei quali esista o persista l'efficacia della relativa manifestazione negoziale preliminare».

Nello stesso senso v.  anche Cass. S.U. n. 239 del 1999; Cass., Sez. 2, 19 maggio 2004, n. 9458; Cass., Sez. 2, 23 febbraio 2007, n. 4227