E’
legittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore, coinvolto in una sparatoria, per giusta causa .
Tale
episodio secondo la Corte di Cassazione 4 dicembre 2013, n. 27129 è
obiettivamente e soggettivamente assai grave, concretando gli estremi di cui
all'art. 2119 c.c., per i quali non assume rilievo la circostanza che il lavoratore
rimanga professionalmente idoneo allo svolgimento delle mansioni.
Per
la Corte, dunque, un delitto commesso anche i fuori dell'ambiente lavorativo consente
il licenziamento, valutata ovviamente la “gravità”
Lede
il decoro architettonico dello stabile la trasformazione
del balcone in una veranda di vetri e con la struttura in alluminio.
Secondo
la Corte di Cassazione 4 dicembre 2013,
n. 27224, infatti, una simile operazione altera, ossia peggiora, la sagoma
dello stabile e l’estetica dello stesso.
Per
considerarla legittima l’installatore deve provare che l’installazione non
altera il decoro dell’edificio.
L’onere della prova è, quindi, a carico di
colui che trasforma il balcone in veranda. Prova che ritengo veramente
difficile.
Il
licenziamento intimato a causa del matrimonio è nullo. E’ quanto stabilito
dalla Corte di Cassazione con la sentenza 3 dicembre 2013, n. 27055.
L'art.
1 legge n. 7 del 1963 dispone, infatti, la nullità
dei licenziamenti attuati a causa del matrimonio,
specificando al comma 3 che si presuma a causa di matrimonio il licenziamento della
dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle
pubblicazioni di matrimonio a un anno dopo la celebrazione; la presunzione di
nullità riguarda ogni recesso che sia stato 'deciso' nell'arco temporale
indicato per legge, indipendentemente dal momento in cui la 'decisione' di
recesso sia stata attuata.
La
Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sulla decorrenza della prescrizione in
materia di risarcimento del danno (Cass. 28-11-2013, n. 26685).
Secondo la Corte il testo degliartt. 2947 e 2935 c.c.deve essere letto ed interpretato nel senso che, al fine di
esercitare il diritto al risarcimento del danno, occorre che il danneggiato sia
adeguatamente informato non solo dell'esistenza del danno stesso, ma anche dei
fatti che ne determinino l'ingiustizia, non potendo altrimenti riscontrarsi
nella sua condotta l'atteggiamento di inerzia che giustifica il decorrere della
prescrizione.
In
sostanza, per la Suprema Corte, la prescrizione
nelle cause di risarcimento del danno inizia a decorrere quando la parte viene
effettivamente a conoscenza del fatto che determina l’ingiustizia.
Nel
caso affrontato dalla Suprema Corte una
tale conoscenza non può ritenersi acquisita in data anteriore a quella in cui è
stato depositato un provvedimento sanzionatorio a carico delle compagnie
assicuratrici, poiché solo tale provvedimento ha reso pubblicamente noti gli
estremi di un'intesa illecita, idonea a determinare i negativi effetti insiti
nella violazione delle regole della concorrenza.
L’assegno
periodico di divorzio, nella
disciplina introdotta dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 10, modificativo della
L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, ha carattere esclusivamente assistenziale. La
sua attribuzione trova presupposto nell'inadeguatezza dei mezzi del coniuge
istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi,
cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un
tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che
sia necessario uno stato di bisogno, e rilevando invece l'apprezzabile
deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni
economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate. Ove sussista
tale presupposto, la liquidazione in concreto dell'assegno deve essere
effettuata in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri
enunciati dalla legge.
In
ordine all'attribuzione dell'assegno di divorzio, il giudice del merito, purché
ne dia adeguata motivazione e giustificazione, non deve tenere conto di tutti i
criteri previsti normativamente, anche in relazione alle deduzioni ed alle
richieste delle parti, salva restando la valutazione della loro influenza sulla
misura dell'assegno de quo.
E’
quanto stabilito dalla Corte di legittimità con la sentenza 27 novembre 2013,
n. 26491.
Nel
caso di specie la suprema Corte ha “cassato” la sentenza della Corte
territoriale in quanto incorsa nella violazione del principio sopra indicato.
Secondo
la Corte di legittimità la Corte territoriale ha applicato in maniera
indistinta, confondendoli fra loro, i criteri di attribuzione e quelli di
quantificazione, nella parte in cui ha giustificato l'attribuzione
dell'assegno, sia pure in misura ridotta rispetto a quella determinata nella
decisione di primo grado, "tenendo conto .. delle ulteriori, e pur
complementari ed accessorie, funzioni dell'assegno divorzile”.
Secondo
la Corte di legittimità (Cass. 18 novembre 2013, n. 25824) la giusta causa di
licenziamento deve essere provata dal datore di lavoro.
Al
fine di stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento è necessario valutare la gravità dei
fatti ascritti al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva
dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati posti in essere ed
all'intensità dell'elemento intenzionale. Altresì, occorre valutare la
proporzionalità fra tali atti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione
dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di
lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione
disciplinare.
Nel
caso affrontato dalla Corte la giusta causa di licenziamento è stata provata da parte del
datore di lavoro.
Invero,
il lavoratore ha protratto un’assenza per più di dieci giorni, nonostante l’esistenza
del dato oggettivo e relativo alla mancata presentazione al lavoro a seguito di
regolare invio della raccomandata, che intimava al lavoratore a riprendere
servizio, presso il luogo dove secondo legge la stessa doveva essere recapitata.
Il datore di lavoro è, durante il corso del giudizio, riuscito a provare la ricezione (comunque presunta) da parte del lavoratore della lettera raccomandata che intimava la ripresa del servizio.
Sotto
il profilo dell'elemento intenzionale tale atteggiamento del lavoratore ha
integrato un comportamento idoneo tale da determinare un senso di perdurante
sfiducia nei confronti del lavoratore.
Tutte le convinzioni del lavoratore sono stati ritenuti irrilevanti.
Ogni conseguenza
negativa è stata, infatti, considerata imputabile unicamente al predetto lavoratore, che avrebbe dovuto
predisporre, secondo un principio di buona fede e di ordinaria diligenza,
meccanismi idonei a rendere a lui conoscibile ogni comunicazione datoriale.
La
Corte di Cassazione (Cass. 18-11-2013,
n. 25843) si occupa di un curioso caso avente ad oggetto il c.d.
“shopping compulsivo” da parte del
coniuge quale causa di addebito della separazione.
Secondo
la Corte la patologia dello shopping compulsivo, quale disturbo della
personalità caratterizzato da un impulso irrefrenabile ed immediato ad
acquistare e da una tensione crescente, alleviata soltanto con l'acquisto di
beni mobili, della quale il coniuge sia pienamente consapevole, tale da potersi
ritenere capace di intendere e di volere, configura violazione dei doveri
matrimoniali, ai sensi dell'art. 143 c.c., e costituisce giusta causa di
addebito della separazione.
Nel
caso di specie il CTU nel corso del procedimento aveva determinato che la
coniuge manifestava una nevrosi caratteriale repressa caratterizzata da un impulso irrefrenabile ed
immediato ad acquistare e da una tensione crescente, alleviata soltanto
acquistando appunto beni mobili.
Un
singolo comproprietario può agire singolarmente per la tutela del proprio
interesse? E’ necessaria la partecipazione in giudizio di tutti gli altri
condomini?
La
Corte di Cassazione a Sezioni Unite (con la sentenza 13 novembre 2013, n. 25454) risolve
definitivamente il contrasto sorto in passato tra le sezioni semplici della
stessa Corte.
La
Corte ha ritenuto chiaro e condivisibile l'orientamento, risalente agli
anni '50, secondo cui le azioni a tutela della proprietà e del godimento della
cosa comune e in particolare l'azione di rivendica possano essere promosse
anche soltanto da uno dei comproprietari, senza che si renda necessaria
l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini (Cass.
2106/00; 11199/00; 4354/99).
Aderendo
a tale interpretazione contrapposta a quelle enunciata da (Cass. 8666/01;
2925/01; 8468/00; 8119/99; 4520/98; 12255/97; 10609/96) la Suprema Corte ha enunciato il seguente
principio di diritto “le azioni a tutela della
proprietà e del godimento della res comune ed, in particolare, l’azione di
rivendica possono essere promosse anche soltanto da uno dei comproprietari,
senza che sia necessario l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli
altri condomini. Ciò sia perché il diritto di ogni partecipante al condominio
ha per oggetto la res comune intesa
nella sua interezza, pur se entro i limiti dei concorrenti diritti altrui, sia
perché spetta ad ogni condomino la tutela dei diritti comuni.
La
Corte di Cassazione (Cass. 29 ottobre 2013, n. 24424) ha chiarito che l'obbligo
dei genitori di concorrere al mantenimento dei figli, secondo le regole degli
artt. 147 e 148 c.c., non cessa, "ipso facto", con il raggiungimento
della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il
genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell'obbligo stesso non
dia la prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica, ovvero che il
mancato svolgimento di un'attività economica dipende da un atteggiamento di
inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato dello stesso.
Nel
caso di specie nei giudizi di merito era stata rigettata la richiesta da parte
del coniuge che deduceva che lo stato di
disoccupazione era tale da non consentirgli il versamento del predetto assegno
in favore dei figli che ormai svolgevano entrambi attività lavorativa e
potevano considerarsi indipendenti.
La
Suprema Corte di Cassazione ha chiarito il caso in cui sia portato alla
notifica un atto con l’indirizzo del destinatario errato.
Per la Suprema Corte (sentenza 19 settembre 2013 n. 21437) la notificazione di un atto
processuale si intende perfezionata, per il notificante, al momento della
consegna dell'atto all'Ufficiale Giudiziario. Per considerare “tempestiva” tale
notifica è necessario che la consegna
della copia del ricorso per la spedizione a mezzo posta venga effettuata entro
il termine perentorio di leggee che
l'eventuale tardività della notifica possa essere addebitata esclusivamente ad
errori o all'inerzia dell'Ufficiale Giudiziario o dei suoi ausiliari e non del
notificante.
Quando, invece, l'atto sia, "ab origine", viziato da errore nell'indicazione dell'esatto
indirizzo del destinatario non può considerarsi tempestiva.L’indicazione
dell’indirizzo esatto è una formalità che, infatti, non sfugge alla
disponibilità del notificante dell'atto all'ufficiale Giudiziario.
Nel
caso di specie la notifica è stata considerata tardiva in quanto è stata
effettuata al precedente studio del difensore costituito in primo grado.
La
Corte di legittimità definisce chiaramente il mobbing.
Secondo
i Supremi Giudici (sentenza 28 agosto 2013, n. 19814) costituisce mobbing la condotta della parte
datoriale o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, posta
in essere nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve
in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere
forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la
mortificazione morale e la emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del
suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Ai fini
della configurabilità della condotta lesiva, continua la Corte, rilevano
elementi quali la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio,
posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il
dipendente con intento vessatorio, l'evento lesivo della salute o della
personalità del dipendente, il nesso eziologico tra la condotta della parte
datoriale o del superiore gerarchico ed il pregiudizio all'integrità
psico-fisica del lavoratore e l'elemento soggettivo, costituito dall'intento
persecutorio.
La
Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sull'obbligo dei genitori di
concorrere tra loro al mantenimento dei figli dei maggiorenni.
In
particolare, la Suprema Corte con sentenza di data 9 maggio 2013 n. 11020 ha chiarito che tale obbligo non cessa automaticamente
con il raggiungimento della maggiore età dei figli ma perdura finché il
genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell'obbligo stesso non
dia la prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica, ovvero che il
mancato svolgimento di un'attività economica dipende da un atteggiamento di
inerzia o rifiuto ingiustificato dello stesso.
Tale
accertamento devi ispirarsi ai criteri di relatività.
Occorre,
infatti, tenere in considerazione le aspirazioni, il percorso scolastico,
universitario e post - universitario del soggetto ed alla situazione attuale
del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto
abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione
Sul
punto v. anche Cass. 15756/2006, 22214/2004, 4765/2002.
Il caso di specie riguardava un laureato in medicina che dopo avere
frequentato un periodo di sei mesi di tirocinio all'estero e avere svolto nel
2006, per soli tre mesi, attività presso cliniche private percependo la somma
di Euro 7,00 ad ora, si è ritenuto che lo stesso, pur avendo trent'anni, e
dovendo ancora frequentare la scuola di specializzazione, non aveva raggiunto
una propria completa autosufficienza economica, senza che ciò potesse
ascriversi a colpa dello stesso.