La
Corte di Cassazione torna ad occuparsi della cannabis sativa ad uso
agroalimentare.
In
particolare si precisa sull'argomento che la legge del 2 dicembre 2016, n. 242,
permette la libera coltivazione di erba legale (Cannabis sativa), ovvero con
contenuti di THC (tetraidrocannabinolo) inferiori al 0,2%.
Secondo
la pronuncia in commento la coltivazione della cannabis sativa ad uso
agroalimentare, promossa dalla legge n. 242/2016, è stata definita non solo
«mediante l'indicazione della varietà di canapa di cui si tratta», ma anche «in
considerazione dello specifico ambito funzionale dell'attività medesima».
Tale
ambito funzionale non contempla l'estrazione e la commercializzazione di alcun
derivato con funzione stupefacente o psicotropa.
Secondo
i Supremi Giudici, dunque, ne consegue che dalla coltivazione di cannabis
sativa L. non possono essere lecitamente realizzati prodotti diversi da quelli
elencati dall'art. 2, comma 2, legge n. 242 del 2016 e, in particolare, tale
coltivazione non può essere destinata alla commercializzazione di «foglie,
infiorescenze, olio e resina»
Affinché
una coltivazione possa considerarsi lecita non è sufficiente che riguardi
cannabis sativa L. proveniente da semenze certificate, è anche necessario che
la coltivazione non sia destinata alla commercializzazione di foglie,
infiorescenze, olio e resina, ma sia finalizzata a realizzare una delle
categorie di prodotti elencate dall'art. 2/comma legge n. 242/2016.
Nel
caso trattato dalla Corte è stato ritenuto integrato il reato in quanto in un’azienda
agricola fu rinvenuta una grande quantità di infiorescenze mese a seccare in
scatole di cartone e un capannone di circa 500 mq. E tale capannone risultò
«adibito alla lavorazione e allo stoccaggio delle infiorescenze di canapa».
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