Chi è responsabile nel caso di morte di un lavoratore dipendente dell’impresa appaltatrice chiamata alla ristrutturazione del tetto di un’azienda? Il committente o l’appaltatore?
La
risposta viene fornita dalla pronuncia in commento.
Secondo
la Corte di legittimità nel caso di appalto di lavori all'interno di
un'azienda, il committente, nella cui disponibilità permanga l'ambiente di
lavoro, è obbligato ex artt. 2087 c.c. e 7, d.lgs. n. 626/1994, ad adottare
tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità e la salute dei lavoratori,
ancorché dipendenti dell'impresa appaltatrice, e che consistono nel fornire
adeguata informazione ai singoli lavoratori circa le situazioni di rischio, nel
predisporre quanto necessario a garantire la sicurezza degli impianti e nel
cooperare con l'appaltatrice nell'attuazione degli strumenti di protezione e
prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all'attività
appaltata (così, tra le più recenti, Cass. nn. 798 del 2017 e 5419 del 2019).
Per
luogo di lavoro deve intendersi ogni area che risulta nella disponibilità
dell'impresa appaltante per la realizzazione dei suoi fini economici e che
viene ad essere interessata dall'esecuzione dei lavori appaltati, rilevando a
tal fine il rapporto di pertinenza tra siffatto ambiente lavorativo e la
disponibilità che ne abbia l'impresa committente (così Cass. n. 11362 del 2009).
Nel
caso di specie l'appalto concerneva i lavori da
eseguirsi sul tetto di un'azienda. Durante i lavori per il rifacimento del
tetto del capannone di proprietà della committente era deceduto un uomo.
La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza in commento ha chiarito una questione che è stata a lungo oggetto di contrasti interpretativi, anche nella giurisprudenza di legittimità.
L’argomento trattato dai giudici di legittimità aveva ad oggetto
la compatibilità tra l’istanza del difensore di distrazione delle spese con
l’ammissione della parte rappresentata al gratuito patrocinio.
La pronuncia in esame conferma l’orientamento espresso dalla
Sezioni Unite (Cass. 8561/2021).
Secondo la pronuncia da ultimo richiamata “il difensore,
privo del potere di disporre dei diritti sostanziali della parte, non può rinunciare
al diritto soggettivo all'assistenza dello Stato per le spese del processo:
tale rinuncia può provenire solo dal titolare del beneficio e non è mai
conseguenza della mera richiesta di distrazione”.
Il patrocinio a spese dello Stato è diretto ad assicurare
l'effettività del diritto di difesa costituzionalmente garantito alla parte
assistita che formula la richiesta di ammissione. Tale diritto è esercitato
nella sua esclusiva disponibilità e non è condizionato dalle scelte processuali
dell'avvocato. Il beneficiario del provvedimento di ammissione non è il
difensore ma la parte non abbiente, che proprio perciò deve proporre
personalmente la richiesta e non è tenuto a reiterarla in caso di revoca del
mandato.
In Giurisprudenza esistevano degli indirizzi contrari a tale
pronuncia.
In particolare i principi da cui deriva l’incompatibilità tra
istanza di distrazione e gratuito patrocinio sono state da ultimo spiegate da
Cass. 6 marzo 2018 n. 5232.
In tale pronuncia veniva enunciato che l'ammissione al gratuito
patrocinio esclude ogni rapporto di incarico professionale tra le parti in
favore del quale è stato emesso il relativo provvedimento e il difensore
nominato dal giudice a norma dell'art. 13 delle legge n. 533 del 1973 sia in
caso di vittoria sia in caso di soccombenza, in quanto il rapporto si
costituisce esclusivamente tra il difensore nominato e lo Stato, con la
conseguenza dell'incompatibilità tra detto rapporto e quello di mandato
professionale e, ove questo venga dedotto dal difensore, come nel caso di
richiesta di distrazione delle spese ed onorari, il venir meno del primo
(precedenti Cass. n. 1454 del 1980).
La pronuncia in esame conferma, dunque, che non vi è
incompatibilità tra la dichiarazione di distrazione e l’ammissione al
patrocinio tale da comportare la rinuncia o la revoca del beneficio.
La Corte di legittimità torna a
pronunciarsi sul significato di “convivenza” contenuto nell'art. 572 c.p. e
sulla sussistenza degli elementi costitutivi dell’illecito nonché sulle
differenze tra la norma incriminatrice citata e l'art. 612-bis, comma 2, c.p.,
che pure contempla espressamente l'ipotesi di condotte commesse a danno di persona
"legata da relazione affettiva".
In giurisprudenza sono presenti
due indirizzi giurisprudenziali.
Per un primo indirizzo
giurisprudenziale il reato di maltrattamenti può configurarsi in una situazione
caratterizzata dalla accertata esistenza di relazione sentimentale nella quale
si sia instaurato un vincolo di solidarietà personale tra i "partner"
(tra le molte, Cass. 03/11/2020 n. 37077 e Cass. 12/06/2019 n. 43701).
Per
un altro indirizzo giurisprudenziale si è affermato, invece, che occorre
valorizzare l'espresso riferimento, contenuto nell'art. 572 c.p. (nella sua
versione modificata dall'art. 4 della L. 1 ottobre 2012, n. 172), alla figura
del convivente, parificata a quella del familiare, come persona offesa di tale
delitto: prendendo atto come con la formula "maltratta una persona della
famiglia, o comunque convivente", il legislatore abbia inteso far
riferimento a condotte che vedono come persona offesa il componente di una
famiglia intesa come comunità qualificata da una radicata e stabile relazione
affettiva interpersonale; ovvero il soggetto che ad esso componente sia
parificabile in ragione di una accertata relazione di "convivenza",
che, lungi dall'essere riconoscibile nella presenza non continuativa di una
persona nell'abitazione di un'altra, è solo quella che si crea quando la
coabitazione della coppia sia caratterizzata da una duratura consuetudine di
vita comune nello stesso luogo (da ultimo v. Cass. 23/01/2019 n. 10222 confermata più di recente da Cass. 01/12/2021
n. 46097)
Secondo
la pronuncia in commento - che richiama il secondo indirizzo giurisprudenziale -
per configurare il delitto di maltrattamenti è indispensabile rispettare lalettera della norma incriminatrice sostanziale senza modificarne la portata
operativa in termini tali da formulare opzioni applicative fondate su
soluzioni che rispondono ad una logica di interpretazione analogica in malam
partem, non consentita in materia penale.
Sotto
tale profilo secondo la Corte di legittimità è significativa la presa di
posizione della Corte costituzionale che, nell'esaminare una specifica
questione processuale, ha valutato una possibile violazione del principio di
tassatività sancito dall'art. 25 Cost., con riferimento al rapporto tra le due
norme incriminatrici previste dagli artt. 572 e 612-bis c.p.
Secondo
la Corte Costituzionale "il divieto di analogia in malam partem impon(ga)
di chiarire se il rapporto affettivo dipanatosi nell'arco di qualche mese e
caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell'abitazione
dell'altro possa già considerarsi, alla stregua dell'ordinario significato di
questa espressione, come una ipotesi di ‘convivenzà...(e se)... davvero possa
sostenersi che la sussistenza di una (tale) relazione consenta di qualificare
quest'ultima come persona appartenente alla medesima "famiglia"
dell'imputato (...). In difetto di una tale dimostrazione, l'applicazione
dell'art. 572 c.p. in casi siffatti - in luogo dell'art. 612-bis, comma 2,
c.p., che pure contempla espressamente l'ipotesi di condotte commesse a danno
di persona "legata da relazione affettiva" all'agente - apparirebbe
come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma
incriminatrice" (Corte Cost., sent. n. 98 del 2021).
La
sentenza in commento in buona sostanza, alla luce di una esegesi rispettosa del
principio costituzionale di legalità, ha enunciato che ai fini della
applicazione della norma incriminatrice dell'art. 572 c.p., di
"convivenza" si può parlare solamente laddove risulti acclarata
l'esistenza di una relazione affettiva qualificata dalla continuità e connotata
da elementi oggettivi di stabilità. Tale presupposto non può essere confuso con
la mera coabitazione. Il concetto di convivenza deve essere espressione di una
relazione personale caratterizzata da una reale condivisione e comunanza
materiale e spirituale di vita.
Il
caso di specie riguardava la condanna di un uomo in relazione ai reati di cui
agli artt. 572 c.p. e 624-bis c.p. per aver maltrattato la compagna convivente con
continue violenze fisiche e verbali nonché per essersi, lo stesso impossessato
a fine di profitto di alcuni gioielli di proprietà della donna.
La
Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi del problema relativo al rapporto
tra il giudizio civile e giudizio penale e sull'autonomia per l’accertamento e
liquidazione dei danni.
Gli
ermellini, hanno ribadito il principio secondo cui l’assoluzione dell’imputato
non influisce sull'interesse della parte civile al risarcimento del danno.
Il
giudizio civile e quello penale sono autonomi e indipendenti. Il Giudice civile
dovrà, dunque, applicare le regole processuali e probatorie proprie del
processo civile, in tema di onere della prova degli elementi oggettivi e
soggettivi dell’illecito.
Il
giudice civile una volta accertato l’evento dannoso, il nesso di causa tra
questo e la condotta dei responsabili, può condannare gli autori dell’illecito al
risarcimento del danno indipendentemente dall'assoluzione con la formula piena,
ai sensi dell’art. 530 co. 1 c.p. “perché il fatto non sussiste” o con
qualsiasi altra formula.
La
Corte nella pronuncia in esame ha, altresì, confermato che il consenso iniziale
della vittima al rapporto sessuale poi succeduto da un dissenso è irrilevante
rispetto alla successiva condotta violenta e, dunque, contraria alla successiva
volontà contraria espressa dalla vittima.
Il
caso di specie aveva ad oggetto l’assoluzione di due giovani (rispettivamente di ventotto e ventuno anni), condannati in
primo grado per i reati di violenza sessuale di gruppo e di lesioni personali
ai danni di una conoscente e poi successivamente assolti in secondo grado con
formula piena per insussistenza del fatto, con giudicato penale formatosi sul
fatto reato in virtù della mancata impugnazione da parte della pubblica accusa. La ventiseienne, conclusi i procedimenti penali, riassumeva, dunque, il giudizio civile precedentemente instaurato. Il Giudice civile condannava, dunque, al risarcimento dei danni i responsabili dell'illecito civile.
Le
Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno enunciato che la persona offesa dal reato non è legittimata ad impugnare, neanche con il ricorso per cassazione,
l’ordinanza che, nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona,
disponga la revoca o la sostituzione della misura cautelare coercitiva, diversa
da quelle del divieto di espatrio o dell’obbligo di presentazione alla polizia
giudiziaria, in violazione del diritto di intervento per mezzo di memorie riconosciutole
dall’art. 299, comma 3, cod. proc. pen., ma può chiedere al pubblico ministero,
ai sensi dell’art. 572 cod. proc. pen., di proporre impugnazione.
Le
Sezioni Unite della Corte di Cassazione, risolvono, dunque, il contrasto che si
era creato nell'ambito della giurisprudenza di legittimità.
Secondo
un primo indirizzo espresso anzitutto dalla Sez. 6 della Corte di Cassazione, n. 6717 del 05/02/2015, Rv.
262272 - la persona offesa che non abbia ricevuto notifica della richiesta, e
che quindi non sia stata messa nelle condizioni di rappresentare il contenuto
della richiesta, ha diritto di proporre ricorso per cassazione contro l'ordinanza
che abbia deciso sulla richiesta invece che dichiararla, come imposto dalla
legge, inammissibile.
A
un anno circa di distanza, la Sez. 6, n. 6864 del 09/02/2016, Rv. 266542 ha
affrontato il tema con un maggiore sforzo argomentativo. Ha così affermato che,
siccome viene in rilievo un vulnus alle prerogative di legge della persona
offesa, deve ritenersi, nel quadro di diritti e facoltà riconosciuti alla
vittima di reato, che la stessa sia legittimata al ricorso per cassazione,
sulla falsariga delle norme che riconoscono il diritto al contraddittorio
cartolare e che ammettono la possibilità di dedurre il vizio derivante dal suo
mancato rispetto, secondo quanto previsto dall'art. 409, comma 6, cod. proc.
pen. in materia di procedimento di archiviazione - il quadro normativo di
riferimento al momento della citata decisione era, però, precedente alla legge
23 giugno 2017, n. 103.
Successivamente
è intervenuta in favore del diritto al ricorso per cassazione, sia pure senza
fornire sul punto motivazione, Sez. 1, n. 51402 del 20/06/2016, Un articolato
ragionamento è stato svolto qualche mese dopo da Sez. 5, n. 7404 del
20/09/2016, dep. 2017, D. P., Rv. 269445.
Questa
sentenza ha valorizzato il significato di garanzia della novella codicistica
del 2013, con la quale si è inteso assicurare alla vittima di reati commessi
con violenza alla persona l'opportunità di apprestare preventivamente le
proprie difese fornendo al giudice, in vista della decisione, elementi
significativi di situazioni che sconsiglino la revoca o la sostituzione della
misura cautelare in atto.
L’assicurazione obbligatoria copre anche le patologie che non siano correlate a rischi considerati specificamente nelle apposite tabelle.
E’ quanto stabilito dalla Corte
di Cassazione.
Secondo la Suprema Corte quella
che rileva non è soltanto il rischio specifico proprio della lavorazione, ma
anche il c.d. rischio specifico improprio; ossia non strettamente insito
nell'atto materiale della prestazione ma collegato con la prestazione stessa ex
art. 1 TU in materia di infortuni sul lavoro.
Nell'ambito del sistema del TU,
sono indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui
origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la
lavorazione, sia che riguardi l'organizzazione del lavoro e le modalità della
sua esplicazione; dovendosi ritenere incongrua una qualsiasi distinzione in tal
senso, posto che il lavoro coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni,
sottoponendola a rischi rilevanti sia per la sfera fisica che psichica.
Ogni forma di tecnopatia che
possa ritenersi conseguenza di attività lavorativa risulta, dunque, assicurata
all'INAIL, anche se non è compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi
tabellati, dovendo in tale caso il lavoratore dimostrare soltanto il nesso di
causa tra la lavorazione patogena e la malattia diagnosticata.
La Suprema Corte di legittimità torna a pronunciarsi in materia di rifiuto da parte del lavoratore alla sottoposizione alle visite mediche propedeutiche di idoneità alla mansione specifica.
Secondo la Corte l'art. 41 co. 2 lett. d) D.lgs. n. 81/2008 testualmente prevede che “la sorveglianza sanitaria comprende visita medica in occasione del cambio della mansione onde verificare l'idoneità alla mansione specifica”.
La visita medica di idoneità in ipotesi di cambio delle mansioni è, dunque, prescritta per legge e la richiesta di sottoposizione a visita, da parte del datore di lavoro, prima della assegnazione alle nuove mansioni, non è censurabile e, anzi, è un adempimento dovuto.
Nel caso si specie la lavoratrice si era rifiutata due volte di sottoporsi alle due visite mediche propedeutiche di idoneità, del 12.9.2017 e del 19.9.2017, disposte per il cambio delle nuove mansioni assegnate (addetta alle pulizie), contestando un illegittimo demansionamento.
Tale rifiuto della lavoratrice, era rivolto a contrastare un illegittimo demansionamento, atteso che le nuove mansioni erano state ritenute non conformi alla qualifica rivestita, al proprio percorso professionale e non
Secondo la Corte la reazione della lavoratrice non era assolutamente giustificabile perché, da un lato, il datore di lavoro si era limitato ad adeguare la propria condotta alle prescrizioni imposte dalla legge per la tutela delle condizioni fisiche dei dipendenti nell'espletamento delle mansioni loro assegnate e, dall'altro, la dipendente avrebbe ben potuto impugnare un eventuale esito della visita, qualora non condiviso, ovvero l'asserito illegittimo demansionamento, innanzi agli organi competenti.
Il licenziamento intimato dal datore di lavoro è, dunque, legittimo.