La Suprema Corte torna a
pronunciarsi in materia di apparenza della servitù.
Secondo la sentenza di Corte di
Cassazione in commento il requisito dell'apparenza della servitù, necessario ai
fini del relativo acquisto per usucapione o per destinazione del padre di
famiglia, si configura come presenza di segni visibili di opere permanenti
obiettivamente destinate al suo esercizio rivelanti, in modo non equivoco,
l'esistenza del peso gravante sul fondo servente, così da rendere manifesto che
non si tratta di attività compiuta in via precaria, bensì di un preciso onere a
carattere stabile. Ne consegue che, per l'acquisto in base a dette modalità di
una servitù di passaggio, non basta l'esistenza di una strada o di un percorso
all'uopo idonei, essendo, viceversa, essenziale che essi mostrino di essere
stati realizzati al preciso scopo di dare accesso al fondo preteso dominante
attraverso quello preteso servente ed occorrendo, pertanto, un "quid
pluris" che dimostri la loro specifica destinazione all'esercizio
della servitù.
Nel caso affrontato dalla Corte
di legittimità è stata confermata la sentenza d’appello nella parte in cui è
stato accertato il “quid pluris” da una serie di elementi di fatto
emergenti dalla disposta Ctu.
In particolare nel giudizio
di merito è stato evidenziato in particolare, dall'esame della mappa di
impianto catastale, che il sentiero, dopo avere attraversato il fondo, “si
ferma in corrispondenza del tratto finale del terreno” “e non risulta
proseguire oltre”.
La Corte di Cassazione con la sentenza in commento si pronuncia sul concetto di atto sessuale utile ai fini dell'integrazione del reato di violenza sessuale.
Secondo la pronuncia in commento rientra nell'accezione di atto sessuale non soltanto ogni forma di congiunzione carnale, ma altresì qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, o comunque coinvolgente la corporeità sessuale del soggetto passivo, sia finalizzato ed idoneo a porre in pericolo la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale.
Non ha, invece, rilievo determinante, ai fini del perfezionamento del reato, la finalità del soggetto attivo e l'eventuale soddisfacimento del piacere sessuale.
La Corte di Cassazione con la sentenza in commento si pronuncia sul concetto di cortile condominiale.
In particolare secondo la pronuncia in commento, viene intesa come cortile, ai fini dell'inclusione nelle parti comuni dell'edificio elencate dall'art. 1117 c.c., qualsiasi area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serva a dare luce e aria agli ambienti circostanti, o che abbia anche la sola funzione di consentirne l'accesso, o sia destinata a spazi verdi, zone di rispetto, parcheggio di autovetture.
Pure le aree da destinare obbligatoriamente ad appositi spazi a parcheggi, ai sensi della speciale normativa urbanistica dettata dall'art. 41-sexies della l. n. 1150 del 1942, introdotto dall'art. 18 della l. n. 765 del 1967, globalmente considerate, devono essere ritenute parti comuni dell'edificio condominiale ai sensi dell'art. 1117 c.c., come peraltro risulta testualmente dallo stesso articolo successivamente all'entrata in vigore della l. n. 220 del 2012.
Secondo la Corte di legittimità la presunzione legale di comunione, stabilita dall'art. 1117 c.c., si reputa inoltre operante anche nel caso di cortile strutturalmente e funzionalmente destinato al servizio di più edifici limitrofi ed autonomi, tra loro non collegati da unitarietà condominiale.
La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul tema della capacità del testatore nel momento in cui viene redatto il testamento.
Secondo la pronuncia in commento l’incapacità naturale del testatore postula l’esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del de cuius, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell'atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi; poiché lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l'eccezione, spetta a chi impugni il testamento dimostrare la dedotta incapacità, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene provarne la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo e delle cause idonee in linea di principio a determinarla.
Nel caso trattato dalla Corte, i giudici di merito avevano ritenuto che – seppur la testatrice avesse “dei momenti in cui non era vigile” e tenesse dei “comportamenti abnormi e indicativi” di un’alterazione delle sua facoltà mentali” -, non era stata raggiunta la prova che al momento della formazione della scheda testamentaria la stessa testatrice era incapace di intendere e di volere ovvero avesse del tutto perso la capacità di autodeterminazione libera e cosciente della al tempo della redazione del testamento.
Il giudice di merito, dinanzi al quale è richiesto l’annullamento del testamento per incapacità naturale del testatore ben può convincersi che gli elementi acquisiti alla causa diano ugualmente la prova della capacità del testatore nel momento in cui fece testamento, senza incorrere con ciò in alcuna contraddizione indipendentemente dal fatto che non sia stata data prova di una incapacità totale e permanente del testatore, tale da giustificare la presunzione di incapacità e la conseguente inversione dell’onere della prova.
I Giudici di legittimità confermavano, dunque, la sentenza di merito che non ha riconosciuto nel testatore l’esistenza di una patologia tale da compromette, in termini generali, in modo permanente la capacità della testatrice, essendoci comunque, nel caso di specie la prova che ella era capace quando fu ricevuto il testamento.
La Corte di legittimità si è
pronunciata in materia di banconote false e in merito al concetto di reato
impossibile per inidoneità della condotta.
Il caso trattato dalla Corte ha
avuto ad oggetto la spendita di una banconota falsa di dieci euro.
La difesa dell’imputato è stata
impostata sulla “grossolanità” del falso della moneta in quanto la stessa era
priva di filigrana e, dunque, era facilmente riconoscibile da colui che è stata
consegnata.
La Corte ha, invece, confermato
la condanna all’imputata in quanto non era facilmente e immediatamente
riconoscibile la falsità.
Secondo i Supremi Giudici,
infatti, la “grossolanità” implica il riconoscimento immediato della falsità da
parte di qualunque persona dotata di comune avvedutezza e l'assenza di
filigrana non costituisce circostanza di per sé sufficiente ad escludere la
idoneità della banconota ad ingannare la fede pubblica nell'ambito della
normalità degli scambi commerciali, dipendendo piuttosto la facile
riconoscibilità della falsità anche dalle altre caratteristiche della banconota
(quali ad esempio il tipo di carta, la presentazione in fotocopia, ecc.).
I Giudici di merito hanno,
dunque, ben applicato i principi esposti dalla giurisprudenza di legittimità
nella parte in cui hanno ritenuto che la banconota si presentava solo priva di
filigrana ma nel resto era del tutto corrispondente alle caratteristiche
grafiche di una banconota autentica.
La grossolanità della
contraffazione, che dà luogo al reato impossibile, si apprezza solo quando il
falso sia íctu oculi riconoscibile da qualsiasi persona di comune discernimento
ed avvedutezza e non si debba far riferimento né alle particolari cognizioni ed
alla competenza specifica di soggetti qualificati, né alla straordinaria
diligenza di cui alcune persone possono esser dotate (Sez. 1, n. 41108 del
24/10/2011, Borrello, Rv. 251173).
Sicché si ha reato impossibile
per inidoneità della condotta allorché la grossolanità della contraffazione
renda il falso così evidente da escludere la stessa possibilità, e non soltanto
la probabilità, che lo stesso venga riconosciuto da una qualsiasi persona di
comune discernimento e avvedutezza.
La
Corte di Cassazione torna ad occuparsi della cannabis sativa ad uso
agroalimentare.
In
particolare si precisa sull'argomento che la legge del 2 dicembre 2016, n. 242,
permette la libera coltivazione di erba legale (Cannabis sativa), ovvero con
contenuti di THC (tetraidrocannabinolo) inferiori al 0,2%.
Secondo
la pronuncia in commento la coltivazione della cannabis sativa ad uso
agroalimentare, promossa dalla legge n. 242/2016, è stata definita non solo
«mediante l'indicazione della varietà di canapa di cui si tratta», ma anche «in
considerazione dello specifico ambito funzionale dell'attività medesima».
Tale
ambito funzionale non contempla l'estrazione e la commercializzazione di alcun
derivato con funzione stupefacente o psicotropa.
Secondo
i Supremi Giudici, dunque, ne consegue che dalla coltivazione di cannabis
sativa L. non possono essere lecitamente realizzati prodotti diversi da quelli
elencati dall'art. 2, comma 2, legge n. 242 del 2016 e, in particolare, tale
coltivazione non può essere destinata alla commercializzazione di «foglie,
infiorescenze, olio e resina»
Affinché
una coltivazione possa considerarsi lecita non è sufficiente che riguardi
cannabis sativa L. proveniente da semenze certificate, è anche necessario che
la coltivazione non sia destinata alla commercializzazione di foglie,
infiorescenze, olio e resina, ma sia finalizzata a realizzare una delle
categorie di prodotti elencate dall'art. 2/comma legge n. 242/2016.
Nel
caso trattato dalla Corte è stato ritenuto integrato il reato in quanto in un’azienda
agricola fu rinvenuta una grande quantità di infiorescenze mese a seccare in
scatole di cartone e un capannone di circa 500 mq. E tale capannone risultò
«adibito alla lavorazione e allo stoccaggio delle infiorescenze di canapa».
La Corte di Legittimità torna a pronunciarsi sul tema relativo alla nullità virtuale del contratto.
Secondo gli ermellini in tema di c.d. nullità virtuale, la violazione di disposizioni inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità unicamente ove non sia altrimenti stabilito dalla legge.
Questo esito va escluso sia quando risulti indicata una differente forma di invalidità (ad esempio, l’annullabilità) sia ove la legge assicuri l’effettività della norma imperativa con la previsione di rimedi diversi.
Nel caso trattato dalla Corte di legittimità, era stata chiesta la dichiarazione di nullità del contratto di vendita di un immobile per violazione del d.lgs. n. 231/2007 sull’antiriciclaggio, stante il pattuito pagamento del prezzo in contanti.
Secondo i Giudici di legittimità la sentenza impugnata merita conferma nella parte in cui ha ritenuto non applicabile l’art. 1418 c.c., poiché l’infrazione contestata era sanzionata in via amministrativa.
La
cassazione in commento chiarisce che il giudice nell’azione diretta all’individuazione
del confine deve prima esaminare i titoli di provenienza e gli atti di
frazionamento e poi può ricorrere ad altri mezzi di prova in assenza o quando
questi ultimi sono insufficienti.
Secondo
la Suprema Corte nell'indagine diretta all'individuazione del confine tra due
fondi riveste importanza fondamentale il tipo di frazionamento allegato ai
singoli atti di acquisto ed in essi richiamato con valore vincolante, sicché il
giudice può ricorrere ad altri mezzi di prova soltanto nel caso in cui le
indicazioni desumibili dai rispettivi atti di provenienza siano mancanti o
insufficienti.
Nel
caso di specie i Supremi Giudici hanno cassato la sentenza della Corte d’Appello
nella parte in cui sono stati valorizzati altri mezzi di prova (consulenza
tecnica d’ufficio e le deposizioni di una serie di testi), senza che nella
parte motiva vi sia traccia dell’esame dei rispettivi titoli di proprietà, il
cui scrutinio il giudice di merito avrebbe dovuto comunque effettuare stante
l’allegazione dei rispettivi atti a prescindere dalla decisione finale.
Chi è responsabile nel caso di morte di un lavoratore dipendente dell’impresa appaltatrice chiamata alla ristrutturazione del tetto di un’azienda? Il committente o l’appaltatore?
La
risposta viene fornita dalla pronuncia in commento.
Secondo
la Corte di legittimità nel caso di appalto di lavori all'interno di
un'azienda, il committente, nella cui disponibilità permanga l'ambiente di
lavoro, è obbligato ex artt. 2087 c.c. e 7, d.lgs. n. 626/1994, ad adottare
tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità e la salute dei lavoratori,
ancorché dipendenti dell'impresa appaltatrice, e che consistono nel fornire
adeguata informazione ai singoli lavoratori circa le situazioni di rischio, nel
predisporre quanto necessario a garantire la sicurezza degli impianti e nel
cooperare con l'appaltatrice nell'attuazione degli strumenti di protezione e
prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all'attività
appaltata (così, tra le più recenti, Cass. nn. 798 del 2017 e 5419 del 2019).
Per
luogo di lavoro deve intendersi ogni area che risulta nella disponibilità
dell'impresa appaltante per la realizzazione dei suoi fini economici e che
viene ad essere interessata dall'esecuzione dei lavori appaltati, rilevando a
tal fine il rapporto di pertinenza tra siffatto ambiente lavorativo e la
disponibilità che ne abbia l'impresa committente (così Cass. n. 11362 del 2009).
Nel
caso di specie l'appalto concerneva i lavori da
eseguirsi sul tetto di un'azienda. Durante i lavori per il rifacimento del
tetto del capannone di proprietà della committente era deceduto un uomo.
La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza in commento ha chiarito una questione che è stata a lungo oggetto di contrasti interpretativi, anche nella giurisprudenza di legittimità.
L’argomento trattato dai giudici di legittimità aveva ad oggetto
la compatibilità tra l’istanza del difensore di distrazione delle spese con
l’ammissione della parte rappresentata al gratuito patrocinio.
La pronuncia in esame conferma l’orientamento espresso dalla
Sezioni Unite (Cass. 8561/2021).
Secondo la pronuncia da ultimo richiamata “il difensore,
privo del potere di disporre dei diritti sostanziali della parte, non può rinunciare
al diritto soggettivo all'assistenza dello Stato per le spese del processo:
tale rinuncia può provenire solo dal titolare del beneficio e non è mai
conseguenza della mera richiesta di distrazione”.
Il patrocinio a spese dello Stato è diretto ad assicurare
l'effettività del diritto di difesa costituzionalmente garantito alla parte
assistita che formula la richiesta di ammissione. Tale diritto è esercitato
nella sua esclusiva disponibilità e non è condizionato dalle scelte processuali
dell'avvocato. Il beneficiario del provvedimento di ammissione non è il
difensore ma la parte non abbiente, che proprio perciò deve proporre
personalmente la richiesta e non è tenuto a reiterarla in caso di revoca del
mandato.
In Giurisprudenza esistevano degli indirizzi contrari a tale
pronuncia.
In particolare i principi da cui deriva l’incompatibilità tra
istanza di distrazione e gratuito patrocinio sono state da ultimo spiegate da
Cass. 6 marzo 2018 n. 5232.
In tale pronuncia veniva enunciato che l'ammissione al gratuito
patrocinio esclude ogni rapporto di incarico professionale tra le parti in
favore del quale è stato emesso il relativo provvedimento e il difensore
nominato dal giudice a norma dell'art. 13 delle legge n. 533 del 1973 sia in
caso di vittoria sia in caso di soccombenza, in quanto il rapporto si
costituisce esclusivamente tra il difensore nominato e lo Stato, con la
conseguenza dell'incompatibilità tra detto rapporto e quello di mandato
professionale e, ove questo venga dedotto dal difensore, come nel caso di
richiesta di distrazione delle spese ed onorari, il venir meno del primo
(precedenti Cass. n. 1454 del 1980).
La pronuncia in esame conferma, dunque, che non vi è
incompatibilità tra la dichiarazione di distrazione e l’ammissione al
patrocinio tale da comportare la rinuncia o la revoca del beneficio.
La Corte di legittimità torna a
pronunciarsi sul significato di “convivenza” contenuto nell'art. 572 c.p. e
sulla sussistenza degli elementi costitutivi dell’illecito nonché sulle
differenze tra la norma incriminatrice citata e l'art. 612-bis, comma 2, c.p.,
che pure contempla espressamente l'ipotesi di condotte commesse a danno di persona
"legata da relazione affettiva".
In giurisprudenza sono presenti
due indirizzi giurisprudenziali.
Per un primo indirizzo
giurisprudenziale il reato di maltrattamenti può configurarsi in una situazione
caratterizzata dalla accertata esistenza di relazione sentimentale nella quale
si sia instaurato un vincolo di solidarietà personale tra i "partner"
(tra le molte, Cass. 03/11/2020 n. 37077 e Cass. 12/06/2019 n. 43701).
Per
un altro indirizzo giurisprudenziale si è affermato, invece, che occorre
valorizzare l'espresso riferimento, contenuto nell'art. 572 c.p. (nella sua
versione modificata dall'art. 4 della L. 1 ottobre 2012, n. 172), alla figura
del convivente, parificata a quella del familiare, come persona offesa di tale
delitto: prendendo atto come con la formula "maltratta una persona della
famiglia, o comunque convivente", il legislatore abbia inteso far
riferimento a condotte che vedono come persona offesa il componente di una
famiglia intesa come comunità qualificata da una radicata e stabile relazione
affettiva interpersonale; ovvero il soggetto che ad esso componente sia
parificabile in ragione di una accertata relazione di "convivenza",
che, lungi dall'essere riconoscibile nella presenza non continuativa di una
persona nell'abitazione di un'altra, è solo quella che si crea quando la
coabitazione della coppia sia caratterizzata da una duratura consuetudine di
vita comune nello stesso luogo (da ultimo v. Cass. 23/01/2019 n. 10222 confermata più di recente da Cass. 01/12/2021
n. 46097)
Secondo
la pronuncia in commento - che richiama il secondo indirizzo giurisprudenziale -
per configurare il delitto di maltrattamenti è indispensabile rispettare lalettera della norma incriminatrice sostanziale senza modificarne la portata
operativa in termini tali da formulare opzioni applicative fondate su
soluzioni che rispondono ad una logica di interpretazione analogica in malam
partem, non consentita in materia penale.
Sotto
tale profilo secondo la Corte di legittimità è significativa la presa di
posizione della Corte costituzionale che, nell'esaminare una specifica
questione processuale, ha valutato una possibile violazione del principio di
tassatività sancito dall'art. 25 Cost., con riferimento al rapporto tra le due
norme incriminatrici previste dagli artt. 572 e 612-bis c.p.
Secondo
la Corte Costituzionale "il divieto di analogia in malam partem impon(ga)
di chiarire se il rapporto affettivo dipanatosi nell'arco di qualche mese e
caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell'abitazione
dell'altro possa già considerarsi, alla stregua dell'ordinario significato di
questa espressione, come una ipotesi di ‘convivenzà...(e se)... davvero possa
sostenersi che la sussistenza di una (tale) relazione consenta di qualificare
quest'ultima come persona appartenente alla medesima "famiglia"
dell'imputato (...). In difetto di una tale dimostrazione, l'applicazione
dell'art. 572 c.p. in casi siffatti - in luogo dell'art. 612-bis, comma 2,
c.p., che pure contempla espressamente l'ipotesi di condotte commesse a danno
di persona "legata da relazione affettiva" all'agente - apparirebbe
come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma
incriminatrice" (Corte Cost., sent. n. 98 del 2021).
La
sentenza in commento in buona sostanza, alla luce di una esegesi rispettosa del
principio costituzionale di legalità, ha enunciato che ai fini della
applicazione della norma incriminatrice dell'art. 572 c.p., di
"convivenza" si può parlare solamente laddove risulti acclarata
l'esistenza di una relazione affettiva qualificata dalla continuità e connotata
da elementi oggettivi di stabilità. Tale presupposto non può essere confuso con
la mera coabitazione. Il concetto di convivenza deve essere espressione di una
relazione personale caratterizzata da una reale condivisione e comunanza
materiale e spirituale di vita.
Il
caso di specie riguardava la condanna di un uomo in relazione ai reati di cui
agli artt. 572 c.p. e 624-bis c.p. per aver maltrattato la compagna convivente con
continue violenze fisiche e verbali nonché per essersi, lo stesso impossessato
a fine di profitto di alcuni gioielli di proprietà della donna.
La
Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi del problema relativo al rapporto
tra il giudizio civile e giudizio penale e sull'autonomia per l’accertamento e
liquidazione dei danni.
Gli
ermellini, hanno ribadito il principio secondo cui l’assoluzione dell’imputato
non influisce sull'interesse della parte civile al risarcimento del danno.
Il
giudizio civile e quello penale sono autonomi e indipendenti. Il Giudice civile
dovrà, dunque, applicare le regole processuali e probatorie proprie del
processo civile, in tema di onere della prova degli elementi oggettivi e
soggettivi dell’illecito.
Il
giudice civile una volta accertato l’evento dannoso, il nesso di causa tra
questo e la condotta dei responsabili, può condannare gli autori dell’illecito al
risarcimento del danno indipendentemente dall'assoluzione con la formula piena,
ai sensi dell’art. 530 co. 1 c.p. “perché il fatto non sussiste” o con
qualsiasi altra formula.
La
Corte nella pronuncia in esame ha, altresì, confermato che il consenso iniziale
della vittima al rapporto sessuale poi succeduto da un dissenso è irrilevante
rispetto alla successiva condotta violenta e, dunque, contraria alla successiva
volontà contraria espressa dalla vittima.
Il
caso di specie aveva ad oggetto l’assoluzione di due giovani (rispettivamente di ventotto e ventuno anni), condannati in
primo grado per i reati di violenza sessuale di gruppo e di lesioni personali
ai danni di una conoscente e poi successivamente assolti in secondo grado con
formula piena per insussistenza del fatto, con giudicato penale formatosi sul
fatto reato in virtù della mancata impugnazione da parte della pubblica accusa. La ventiseienne, conclusi i procedimenti penali, riassumeva, dunque, il giudizio civile precedentemente instaurato. Il Giudice civile condannava, dunque, al risarcimento dei danni i responsabili dell'illecito civile.
Le
Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno enunciato che la persona offesa dal reato non è legittimata ad impugnare, neanche con il ricorso per cassazione,
l’ordinanza che, nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona,
disponga la revoca o la sostituzione della misura cautelare coercitiva, diversa
da quelle del divieto di espatrio o dell’obbligo di presentazione alla polizia
giudiziaria, in violazione del diritto di intervento per mezzo di memorie riconosciutole
dall’art. 299, comma 3, cod. proc. pen., ma può chiedere al pubblico ministero,
ai sensi dell’art. 572 cod. proc. pen., di proporre impugnazione.
Le
Sezioni Unite della Corte di Cassazione, risolvono, dunque, il contrasto che si
era creato nell'ambito della giurisprudenza di legittimità.
Secondo
un primo indirizzo espresso anzitutto dalla Sez. 6 della Corte di Cassazione, n. 6717 del 05/02/2015, Rv.
262272 - la persona offesa che non abbia ricevuto notifica della richiesta, e
che quindi non sia stata messa nelle condizioni di rappresentare il contenuto
della richiesta, ha diritto di proporre ricorso per cassazione contro l'ordinanza
che abbia deciso sulla richiesta invece che dichiararla, come imposto dalla
legge, inammissibile.
A
un anno circa di distanza, la Sez. 6, n. 6864 del 09/02/2016, Rv. 266542 ha
affrontato il tema con un maggiore sforzo argomentativo. Ha così affermato che,
siccome viene in rilievo un vulnus alle prerogative di legge della persona
offesa, deve ritenersi, nel quadro di diritti e facoltà riconosciuti alla
vittima di reato, che la stessa sia legittimata al ricorso per cassazione,
sulla falsariga delle norme che riconoscono il diritto al contraddittorio
cartolare e che ammettono la possibilità di dedurre il vizio derivante dal suo
mancato rispetto, secondo quanto previsto dall'art. 409, comma 6, cod. proc.
pen. in materia di procedimento di archiviazione - il quadro normativo di
riferimento al momento della citata decisione era, però, precedente alla legge
23 giugno 2017, n. 103.
Successivamente
è intervenuta in favore del diritto al ricorso per cassazione, sia pure senza
fornire sul punto motivazione, Sez. 1, n. 51402 del 20/06/2016, Un articolato
ragionamento è stato svolto qualche mese dopo da Sez. 5, n. 7404 del
20/09/2016, dep. 2017, D. P., Rv. 269445.
Questa
sentenza ha valorizzato il significato di garanzia della novella codicistica
del 2013, con la quale si è inteso assicurare alla vittima di reati commessi
con violenza alla persona l'opportunità di apprestare preventivamente le
proprie difese fornendo al giudice, in vista della decisione, elementi
significativi di situazioni che sconsiglino la revoca o la sostituzione della
misura cautelare in atto.
L’assicurazione obbligatoria copre anche le patologie che non siano correlate a rischi considerati specificamente nelle apposite tabelle.
E’ quanto stabilito dalla Corte
di Cassazione.
Secondo la Suprema Corte quella
che rileva non è soltanto il rischio specifico proprio della lavorazione, ma
anche il c.d. rischio specifico improprio; ossia non strettamente insito
nell'atto materiale della prestazione ma collegato con la prestazione stessa ex
art. 1 TU in materia di infortuni sul lavoro.
Nell'ambito del sistema del TU,
sono indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui
origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la
lavorazione, sia che riguardi l'organizzazione del lavoro e le modalità della
sua esplicazione; dovendosi ritenere incongrua una qualsiasi distinzione in tal
senso, posto che il lavoro coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni,
sottoponendola a rischi rilevanti sia per la sfera fisica che psichica.
Ogni forma di tecnopatia che
possa ritenersi conseguenza di attività lavorativa risulta, dunque, assicurata
all'INAIL, anche se non è compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi
tabellati, dovendo in tale caso il lavoratore dimostrare soltanto il nesso di
causa tra la lavorazione patogena e la malattia diagnosticata.
La Suprema Corte di legittimità torna a pronunciarsi in materia di rifiuto da parte del lavoratore alla sottoposizione alle visite mediche propedeutiche di idoneità alla mansione specifica.
Secondo la Corte l'art. 41 co. 2 lett. d) D.lgs. n. 81/2008 testualmente prevede che “la sorveglianza sanitaria comprende visita medica in occasione del cambio della mansione onde verificare l'idoneità alla mansione specifica”.
La visita medica di idoneità in ipotesi di cambio delle mansioni è, dunque, prescritta per legge e la richiesta di sottoposizione a visita, da parte del datore di lavoro, prima della assegnazione alle nuove mansioni, non è censurabile e, anzi, è un adempimento dovuto.
Nel caso si specie la lavoratrice si era rifiutata due volte di sottoporsi alle due visite mediche propedeutiche di idoneità, del 12.9.2017 e del 19.9.2017, disposte per il cambio delle nuove mansioni assegnate (addetta alle pulizie), contestando un illegittimo demansionamento.
Tale rifiuto della lavoratrice, era rivolto a contrastare un illegittimo demansionamento, atteso che le nuove mansioni erano state ritenute non conformi alla qualifica rivestita, al proprio percorso professionale e non
Secondo la Corte la reazione della lavoratrice non era assolutamente giustificabile perché, da un lato, il datore di lavoro si era limitato ad adeguare la propria condotta alle prescrizioni imposte dalla legge per la tutela delle condizioni fisiche dei dipendenti nell'espletamento delle mansioni loro assegnate e, dall'altro, la dipendente avrebbe ben potuto impugnare un eventuale esito della visita, qualora non condiviso, ovvero l'asserito illegittimo demansionamento, innanzi agli organi competenti.
Il licenziamento intimato dal datore di lavoro è, dunque, legittimo.